Cinema e arti marziali: un viaggio dalla Cina all’Esquilino in emozioni

Il cinema delle arti marziali: evoluzione, icone come Bruce Lee e nuove proposte italiane come La città proibita, che mescolano tradizione e innovazione.

Il cinema delle arti marziali rappresenta un universo unico, caratterizzato da combattimenti spettacolari, allenamenti intensi e maestri saggi che condividono la loro filosofia tra un colpo e l’altro. Questo genere non è semplicemente un sottoinsieme del film d’azione, ma si configura come una vera e propria forma d’arte che unisce fisicità, spettacolo e, nei casi migliori, riflessioni sulla vita. Tuttavia, la definizione di un film di arti marziali rimane complessa: è sufficiente che presenti combattimenti mozzafiato o deve anche includere una trama che esplori temi di disciplina e crescita personale? Inoltre, ci si chiede se opere come quelle della saga di John Wick, che attingono dal kung fu, possano essere incluse in questa categoria.

Il percorso del cinema marziale si estende dalla Cina della dinastia Qing ai quartieri di Hong Kong, passando per gli allenamenti dei monaci di Shaolin e le produzioni di Hollywood, segnato da continue evoluzioni e reinterpretazioni.

La cina: la culla del cinema marziale

Il primo film di arti marziali, The Burning of the Red Lotus Temple, è stato prodotto in Cina nel 1928, ma il vero successo del genere è esploso negli anni ’70, grazie all’impegno di case di produzione come Golden Harvest e Shaw Brothers, che hanno reso il kung fu un fenomeno internazionale.

Bruce Lee ha avuto un ruolo fondamentale in questa trasformazione, con il suo stile dinamico e le sue tecniche letali che hanno superato le barriere culturali, portando il kung fu in Occidente. Il suo impatto va oltre il semplice intrattenimento: il Jeet Kune Do, la sua arte marziale, rappresenta una fusione di diverse tecniche e sfida le convenzioni delle arti marziali tradizionali. La filosofia di autodisciplina e autodeterminazione di Lee ha ispirato generazioni, mentre film come I 3 dell’Operazione Drago (Enter the Dragon) e L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (The Way of the Dragon) lo hanno consacrato come un’icona culturale, cambiando per sempre la percezione degli attori asiatici a Hollywood.

La carriera di Bruce Lee, sebbene tragicamente breve, ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama cinematografico e nella cultura pop. Oltre ad essere un attore straordinario, Lee è stato un filosofo e un innovatore. Il suo Jeet Kune Do non era solo una tecnica di combattimento, ma un concetto rivoluzionario che promuoveva un approccio flessibile e pratico alle arti marziali. In un periodo in cui gli attori asiatici erano spesso relegati a ruoli stereotipati, Lee ha aperto la strada a una nuova rappresentazione, dimostrando che un eroe poteva essere non solo un combattente, ma anche una persona intelligente e carismatica.

La sua influenza si estende anche al mondo della musica, dei videogiochi e dei fumetti, con riferimenti che spaziano da Dragon Ball, il cui protagonista Goku è ispirato a lui, fino a citazioni in film contemporanei come Kill Bill.

Dopo Lee verso wuxia

Successivamente, il panorama delle arti marziali è stato arricchito da figure come Jackie Chan, con il suo stile di kung fu acrobatico che combina agilità e comicità, e Jet Li, la cui tecnica di wushu esprime una disciplina elegante e letale. Donnie Yen ha portato alla ribalta il Wing Chun attraverso la saga di Ip Man, mostrando una combinazione di velocità e precisione che ha ridefinito il genere. Anche Michelle Yeoh ha contribuito a cambiare la percezione delle protagoniste femminili nel cinema d’azione, mentre Zhang Ziyi ha creato alcune delle scene più iconiche del wuxia moderno, come in La Tigre e il Dragone e Hero.

Il wuxia, una tradizione che unisce arti marziali e narrativa epica, è stato reinterpretato da registi d’autore. Wong Kar-wai, con The Grandmaster, ha conferito al genere una dimensione visiva raffinata, mentre Zhang Yimou, con opere come Hero e La foresta dei pugnali volanti, ha elevato il wuxia a un’esperienza artistica, con coreografie liriche e colori evocativi. Ang Lee, attraverso La Tigre e il Dragone, ha reso il genere più accessibile al pubblico occidentale, ponendo l’accento sull’introspezione dei personaggi, oltre alla spettacolarità delle battaglie. Altri autori, come Hou Hsiao-hsien con The Assassin, hanno sperimentato con il wuxia, concentrandosi su un’estetica minimalista e su una narrazione rarefatta, dove il silenzio e il gesto diventano potenti strumenti espressivi.

Negli anni 2000, l’Indonesia e la Thailandia hanno fatto il loro ingresso nel panorama con film come The Raid e Ong-Bak, mentre Hollywood ha risposto mescolando coreografie orientali con blockbuster di grande successo. Nel frattempo, Quentin Tarantino ha omaggiato il cinema di Hong Kong in opere come Kill Bill e Once Upon a Time in Hollywood.

La Cina è vicina?

L’Italia ha avuto un rapporto piuttosto intermittente con il cinema di arti marziali. Sebbene Bud Spencer e Terence Hill abbiano deliziato il pubblico con le loro scazzottate, si trattava più di una parodia delle risse da osteria che di un vero kung fu. Negli anni ’80 e ’90, alcuni registi italiani hanno tentato di esplorare il genere, producendo film che mescolavano arti marziali ed elementi di exploitation, come I Cinque del Condor e Karate Kimura, senza però ottenere un grande successo.

Oggi, Gabriele Mainetti si propone di cambiare le regole del gioco con La città proibita, un tentativo significativo di portare un kung fu movie made in Italy al grande pubblico. Dopo aver reinterpretato il cinema supereroistico con Lo chiamavano Jeeg Robot, Mainetti si lancia in una nuova avventura, mescolando il mondo delle arti marziali con l’anima di Roma. La trama segue Mei, una giovane esperta di arti marziali che arriva nella capitale alla ricerca della sorella scomparsa. Durante il suo viaggio, incontra Marcello, un cuoco romano, e insieme si trovano coinvolti in dinamiche oscure della città.

Il film promette coreografie spettacolari e un mix culturale che offre una visione inedita di Roma. Mainetti ha dichiarato di voler far dialogare il kung fu di Hong Kong con il cinema italiano, creando una vera e propria “città proibita”.

Le arti marziali al cinema continuano a evolversi, spaziando da Shaolin ai quartieri romani. Mentre Hollywood continua a rielaborare il genere e il cinema asiatico produce nuove opere straordinarie, l’Italia si affaccia finalmente sul ring con una proposta ambiziosa. Resta da vedere se La città proibita potrà inaugurare una nuova era per il cinema marziale italiano.

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